Oggi il nostro particolare pensiero va a chi si trova nel reparto Trapianti, in attesa che presto possa tornare a vivere la propria normalità e a progettare il suo futuro.

Abbiamo scelto la testimonianza della nostra pedagogista Simona Paoluzzi, che svolge la sua attività al TETEC (Trapianto Emopoietico e Terapie Cellulari) dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, le cui parole ci fanno commuovere, riflettere ma anche sperare.

Grazie Simona. E grazie a tutti coloro che ogni giorno donano il loro tempo per assicurare una vita migliore a tutti i bambini e ragazzi in cura.

“Mi chiamo Simona, sono una pedagogista psicomotricista che svolge attività ludica al TETEC dal 2003. Quando ho iniziato erano solo 4 stanze: oggi ci sono due reparti disposti in due piani e la dimensione familiare si è un po’ persa. I corridoi sono lunghi, le cucine per i genitori sono piccole. Molto spesso i genitori preferiscono stare ognuno nelle proprie stanze, per evitare i contatti con altri genitori (a volte sentire il dolore di un’altra mamma è difficile, quando hai paura che potrebbe succedere anche a tuo figlio).

I ragazzi, i bambini arrivano in questo reparto quando non c’è altro da fare, è l’unica possibilità che hanno di guarire. Di vivere.

Quest’esperienza è considerata come una “svolta”; se dovessi dargli una metafora la definirei un “embrione”. Molti la definiscono come la seconda rinascita. Grazie al trapianto potrebbero guarire, chiudere con anni di dolore, di terapie devastanti, di Isolamento e di paure, potrebbero vivere finalmente la quotidianità e progettare un futuro.

A differenza di altri reparti qui gli ambienti sono sterili, le camere sono singole e il reparto è in isolamento, solo poche persone possono entrare, poiché le difese dei ragazzi sono a zero, ogni virus o batterio potrebbe essergli dannoso. Ragazzi e famiglie trascorrono molto tempo da soli: la noia, i pensieri, il dolore fisico sono i loro compagni di viaggio.

I piccoli pazienti e i loro genitori entrano in reparto con una valigia piena di un passato di dolore, di limitazioni e con un presente pieno di paure e aspettative.

Ma sono lì in trincea per vincere la loro battaglia: figli, genitori, infermieri e dottori tutti insieme.

Ecco: io faccio parte di quella trincea. Il mio ruolo è di accompagnarli donando loro quella parte che gli è stata tolta, il gioco, l’esperienza di creare e lasciarsi andare a quella normalità tanto sognata ma deprivata.

Gioco, sperimento, mi affianco al dolore dei genitori sostenendoli, ascoltandoli cercando ogni volta di portare un sorriso, un po’ di quell’infanzia al momento messa tra parentesi”.